La misura del tempo. Intervista a Francesco Arena
segno / marzo — aprile 2021
La personale dell’artista pugliese Francesco Arena dal titolo otto angoli presso lo Studio Trisorio di Napoli, è un racconto tra forme aperte o chiuse e cifre numeriche, opere che dialogano con il tempo e con spazi passati e futuri. “Il mondo delle verità fisiche, come quelle matematiche è chiuso come una sfera. Ogni nuova visione, se è profonda, è una fuga da questa specie di prigione. Si possono vedere delle resistenze a fuggire. Oppure non se ne può proprio vedere la ragione” queste le suggestive parole dal celebre film di Martone “Morte di un matematico napoletano” che mi son balzate alla mente mentre osservavo i lavori presentati. Ho chiacchierato e posto alcune domande ad Arena, cercando di rivelare un mondo che solo parzialmente è possibile cogliere guardando le sue opere esposte in tutto il mondo.
BT: Otto angoli, otto opere diverse per materiali e tematiche, come mai questa scelta? Potresti parlarci dei lavori in mostra e della loro collocazione all’interno dello spazio espositivo?
FA: In mostra ci sono 8 lavori che si collocano nei rispettivi 8 angoli dello spazio, di conseguenza automaticamente si è scelto il numero delle opere che hanno datazioni diverse, dal 2012 al 2021. Sono opere che ho prodotto nel corso del tempo e tutte hanno in comune il destino di essere installate in un angolo, ho pensato quindi di raccoglierle in mostra. Mi interessava dare una visione dei differenti approcci e materiali, delle tecniche utilizzate nei lavori, mi piaceva quasi che la mostra sembrasse una collettiva, con opere diversissime l’una dall’altra. L’angolo è l’elemento base dell’architettura, l’incontro di due strutture solide con il pavimento, è un po’ idea di rifugio, di nicchia, ma anche elemento secondario, è un luogo a cui solitamente si presta poca attenzione anche se fondante. Mi piaceva l’idea del detto “essere messo all’angolo”, “andare all’angolo”, questa serie di suggestioni hanno dato vita all’insieme delle otto opere che costituiscono la mostra. Si va da un’opera più vecchia del 2021 dal titolo Extrême Occident, un libro che ho trovato per caso su una bancarella nel 2010 che poi è diventata un’opera, installata nello spazio più occidentale della galleria, mi piaceva che il titolo del libro diventasse un elemento geografico concreto. L’opera ogni volta che viene posizionata deve rapportarsi in qualche modo all’angolo più occidentale, e così che alle volte non si riesca ad installare! A finire con il libro gemello Extrême Orient che è invece nell’angolo orientale, mi interessava il libro come elemento visivo e come portatore di questa indicazione geografica più che il suo contenuto.
BT: Parlando proprio di quest’opera mi sovviene anche Virginia Woolf citata in una tua recente lavoro Anello, o James Joyce in Cube Book. Sono tanti i richiami letterari che ti accompagnano, quanto è importante per te il rapporto con questi grandi scrittori del passato e in che modo ispirano la tua produzione?
FA: Io penso che la letteratura sia un bisogno primario, di conseguenza poi leggendo trovi delle frasi nelle quali lo scrittore riesce a riassumere perfettamente tutta una serie di significati che magari anche tu pensi ma che non riesci a sintetizzare in poche parole. Nel caso di Virginia Woolf è accaduto proprio questo, la frase in questione: “la stessa pietra che calci con lo stivale sopravvivrà a Shakespeare” è una cosa a cui ho sempre pensato; alla differenza temporale della durata e al tempo dell’uomo. Questa considerazione l’avevo già fatta con un lavoro precedente per Capri intitolato Novantatremiliardi di albe, in cui c’è un riferimento al tempo della pietra, e la frase della Woolf mi sembrava che rendesse concretamente una serie di pensieri in una maniera straordinaria.
BT: Ed in Otto angoli?
FA: Anche in mostra ci sono diversi riferimenti letterari come per esempio in Trittico del sapere, tre lastre d’alluminio lucidate a specchio, dove su ogni lastra c’è incisa una frase che è presa dal libro I Calabroni di Peter Handke, frasi che hanno a che fare con l’idea del sapere, in contraddizione tra loro ma che nell’incrocio specchiante si mischiano l’una nell’altra, uno spazio che si apre. In Elle Capovolta c’è invece una frase in francese che Sciascia scelse come epitaffio per la sua tomba: “ce ne ricorderemo di questo pianeta”. In una delle opere più recenti Endless Nameless che è il titolo di una canzone dei Nirvana, ho invece realizzato un tubo Innocenti lungo sei metri piegato – generalmente utilizzato per le strutture dei cantieri – e all’interno 60 metri di nastro magnetico in cui vi è incisa la canzone che tuttavia non si può sentire, presente all’interno dell’opera sia come tempo, misura, ma anche disegno astratto.
BT: Mi sembra di capire che attraverso le tue opere ti interroghi sulla coscienza storica. La memoria collettiva è l’insieme dei ricordi più o meno mitizzati di un’esperienza vissuta dalla collettività, per esternarli occorre certamente una narrazione, quanto è importante questa nel tuo lavoro?
FA: Solitamente faccio riferimento a storie precise, però poi all’interno dell’opera diventano invisibili. Forse risulta più figurativo 3,24 mq, un lavoro del 2004, in cui però è presente l’asetticità della cassa di imballaggio. Personalmente mi approccio a una storia perché mi serve a capirne altre, ad esempio ho realizzato molti lavori sulla vicenda di Pinelli, o pensando a tutti i lavori sui flussi migratori, sono storie che ne contengono tante altre, racconti millenari, che sono tuttavia sempre i medesimi. Storie che si intrecciano con la mia, il lavoro di un’artista non è mai chiaro, è un punto di vista poco trasparente, l’opera si deve per forza aprire al punto di vista degli altri, è qualcosa che esiste come entità materica e ha bisogno di questo rapporto.
BT: 3,24 mq, Novantatremiliardi di albe, Marmo con 3274 giorni, Un metro di libri letti, le tue sono opere riconoscibili ma con dei significati celati, date significative, distanze percorse. Come è nata questa predilezione per i riferimenti numerici?
FA: Io credo che i numeri servano a dare un ordine al mondo e per cercare di ordinare l’astratto, servono a difenderci da ciò che non conosciamo, hanno a che fare con la religione e il senso del sacro. Rappresentano una lingua universale, un qualcosa a cui ci rapportiamo tutti e che ha molto a che fare col corpo, penso alle dieci cifre come le dieci dita delle mani: è tutto legato a qualcosa di organico, a quello che siamo. Anche in mostra l’idea dei numeri è presente, come per esempio in Monolite liquido nero, una vasca di metallo in forma di triangolo equilatero di 1 metro per lato che contiene 100 litri di liquido nero, l’idea era quella di creare una struttura fatta sia di pieno che di vuoto, l’opera in sé è il liquido ma senza la sua struttura non esisterebbe. Fiore Curva è un blocco di bronzo lucidato, piccolissimo, dal peso di 30 chili perché pieno. Cubo è costruito con una catasta di lastre di marmo e pietra dalle quali è stato tagliato a squadro un angolo vuoto.
BT: Dal 2017 collabori con la galleria Trisorio, com’è nata questa collaborazione e come si è sviluppata dalla prima personale “Passaggio” del 2017 ad oggi?
FA: Ho incontrato Laura Trisorio tanti anni fa, poi ci siamo ritrovati ad Artecinema dove mi avevano invitato per mostrare un documentario ed è iniziata così la nostra collaborazione, oltre alle due mostre in galleria nel tempo ci sono stati altri progetti insieme, alcuni lavori site specific per diversi luoghi, sia a Napoli che a Capri, una piacevole collaborazione.
BT: 5468 giorni è il titolo del recente volume edito da Skira che ripercorre la tua intera produzione, quali sono i tuoi impegni futuri?
FA: Questo periodo di quarantena ha fatto annullare molte mostre, mentre altre sono state solo rimandate. Tra queste una mostra a cui tengo molto e che dovrebbe inaugurare a Maggio, curata da Vincenzo de Bellis al Walker Art Center di Minneapolis. Una mostra sull’idea di immobilità che Vincenzo tante volte ha affrontato nel suo percorso curatoriale e in cui sarò presente con un mio lavoro, a cui tengo molto, che già fa parte della collezione.
Brunella Todisco