Beckley e gli anni ‘70 colorati e sensuali

corriere del mezzogiorno / 20 gennaio 2016


Alla galleria Trisorio il maestro americano della Narrative art «Sto lavorando anche a un progetto su Napoli»

Vernissage domani: è la settima mostra dell’autore in Campania. La prima fu nel 1975 da Lucio Amelio

Allo Studio Trisorio, domani alle 19, si inaugura la settima mostra napoletana di tra Bill Beckley, il settantenne artista della Pennsylvania, protagonista del movimento della Narrative Art e membro del gruppo 112 Greene Street, nato in risposta al Minimalismo dei Robert Morris, Carl Andre e Sol LeWitt.
La prima fu nel 1975 da Lucio Amelio e poi a seguire tutte le altre nella galleria di Riviera di Chiaia, di cui sarà ospite an che questa volta fino al 21 marzo, fra cui «Gardens of Pompei» del 1986, preparata nella casa caprese dei Trisorio (e di cui un'opera è attualmente conservata ed esposta al Museo Madre). Un nuovo ritorno quindi, quello con «Elements of Romance. Works from the Seventies», che nel suo caso non ha mai il solo gusto dell’esposizione fine a se stessa. Ma piuttosto l'energia di un luogo che sa trasferirsi anche 1969, nel suo lavoro. «È vero – spiega seguite Bill – Napoli mi piace molto, la trovo carica di pulsazioni positive, di luci, colori, traffico. E infatti in questi giorni sto girando per la città scattando foto a ripetizione, riprendo gli angoli delle strade o le superfici dei palazzi, ma soprattutto mi piace cogliere il dettaglio di un auto colpita dalla luce del campi sole o da quella elettrica nelle ore della sera. Quando tornerò in America le riguarderò queste immagini e ci costruirò su un nuovo progetto espositivo, che ovviamente porterò qui quanto prima, magari corredato con alcuni testi, proprio come accadeva negli anni iniziali della Narrative Art».
Già, fra la fine degli anni '60 e l'intero decennio dei '70, esattamente in quell'arco di tempo che ha visto la crescita e l'affermazione di Beckley, e dal quale sono tratti i dieci lavori scelti per questa mostra napoletana. «Nel ciclo qui esposto – continua Beckley – sono rappresentati alcuni dei momenti salienti del mio percorso a partire da "Myself as Washington", un autoritratto fotografico del 1969, nato in seguito a un periodo di lavoro ai lati del fiume Delaware, dove ho dipinto una lunghissima striscia blu che attraversava i campi e anche il corso d'acqua, esattamente lì dove nel 1776 era passato il generale fondatore degli Stati Uniti. E così mi venne l'idea di vestirmi come lui e fotografarmi». Ma attenzione Beckley non ama considerarsi un fotografo, anche se ormai da tempo lavora solo con la tecnica di stampa in cibachrome. «La differenza – spiega – sta nei formati. I classici fotografi alla Stieglitz usavano formati piccoli, nel mio caso preferisco superfici molto più grandi e una logica compositiva che ricorda di più la pittura». In mostra anche altre opere come «Cake Story» del 1974, «Paris Bistro» del 1975, «Mao Dead» del 1976, «Kitchen» del 1977, «Deirdre’s Lip» del 1978 e «Shoulder Blade» del 1978, lavori concettuali con tanto di corredo scritto ed esposto a parete. Un po’ come accadeva a un altro maestro del concettuale: Joseph Kosuth. «Nutro grande stima e rispetto per lui – conclude Beckley –, ma nel suo lavoro c’è una componente seriosa e puritana, in cui predomina il nero, molto distante da me. Io preferisco sempre una cifra colorata, ironica e perché no anche un po' sensuale».

Stefano de Stefano


 
Previous
Previous

Beckley, la fotografia come una fiction

Next
Next

Christiane Löhr, sculptor: 'I began to use what I had in my hands - the horse hair, straw and hay'