Beckley, la fotografia come una fiction

il mattino / 21 gennaio 2016


Da Trisorio l’artista americano che intreccia immagini e testi per raccontare storie

«Eccomi, questa è la mia storia d'artista e questo sono io nel 1969». Inizia così, con un autoritratto nei panni di George Washington, l'incontro con Bill Beckley, l'artista americano protagonista della Narrative Art. Una corrente nata in risposta alla fredda essenzialità del Minimalismo che sembrava aver svuotato l'arte di contenuti evidenti, appiattendone le forme e limitandone la gestualità. È in quegli anni che Beckley inizia un suo percorso creativo dove le sue fotografie, abbinate a testi scritti suoi o presi in prestito da giornali e pubblicità, diventano una vera e propria forma di racconto. Nascono così lavori storici come «Cake Story»(1974), «Paris Bistro»(1975) e «Kitchen» (1977), in cui la scrittura viene usata allo stesso livello dell'immagine – e viceversa – in una fusione narrativa che trasforma l'artista in un creatore di fiction. E il caso anche di «Mao Dead»(1976), in degli a cui il leader cinese morto viene presentato insieme a titoli di giornali e fotografie cibachrome di forte impatto visivo («non amo le dittature, perciò ho voluto celebrare la fine di Mao»). Ognuno di questi lavori apre il varco all’immaginazione conducendoci in un racconto che intreccia frammenti di esperienze, ricordi personali ed eventi collettivi. Tutto questo sarà in mostra a Napoli allo Studio Trisorio (Riviera di Chiaia 215) a partire da oggi (inaugurazione ore 19 alla presenza dell’artista) in una ricca retrospettiva intitolata, non a caso, «Elements of Romance. Works from The Seventies».
Beckley, arruffato settantenne ma col sorriso gentile di chi dell’arte fa ancora la sua vera ragione di vita, racconta sé stesso e un pezzo della storia dell’arte americana indicando lavoro dietro lavoro e spiegandone la genesi, gli accostamenti visivi e il contesto in cui sono nati. «Myself as Washington», per esempio, è l’esito di una azione performativa nei campi vicini al fiume Delaware, «ma non avevo macchina fotografica per documentarla. E allora mi è venuta l’idea di un autoritratto vestito da presidente Washington, come in una fiction». Oppure il lavoro che dà il titolo alla mostra, «Elements of Romance», in cui una bottiglia di vino si affianca a una candela accesa, rivolgendosi specularmente a una candela spenta e una bottiglia vuota: «È la storia di un corteggiamento, i dettagli di una serata romantica con una donna». Un prima e un dopo che lascia spazio alla fantasia dello spettatore che può immaginare un epilogo a lieto fine o un secco rifiuto.
Beckley in queste opere usa la macchina fotografica come fosse una macchina da scrivere: ci sono incipit, brandelli di racconto, pezzi di autobiografia, canovacci narrativi che vengono mostrati attraverso le immagini. E tutti insieme compongono un'unico romanzo visuale così denso e unico nel suo genere da divenire an che un po' inquietante. Come «Deirdre's Lip», una grande bocca densa di rossetto e seduzione che sovrasta tre foto di piccole nuvole, e a sua volta viene schiacciata da un lungo paesaggio fumoso. Fa parte di una serie di lavori che, dopo quella che racconta le sezioni di una casa, ora mette in primo piano il corpo, dettagli di corpo che diventano fulcro della narrazione. «Quelle sono le labbra della mia ex moglie, e le tre nuvolette volevano essere la rappresentazione del suo respiro», spiega l'artista. E il testo che accompagna le foto a un certo punto parla di un treno nella notte: dunque quel paesaggio fumoso incarna l'idea di un locomotore in movimento. È tutto così Beckley, una stratificazione illogica come nei sogni: un rimando dietro l'altro, un gioco di scatole cinesi, dove l'ironia si maschera di leggerezza e mette in bella vista il sentire più intimo. C'è un continuo deragliare dello sguardo, con circostanze concrete e idee fuori scena che si fondono per l'occhio prensile. Un raccontare che procede per strappi, corposo e duttile allo stesso tempo, che può alleggerirsi fino alla farsa ma anche fermarsi improvviso nella meditazione. Una cornice immateriale che riquadra pezzi di vita, ricordi estratti da un taccuino di viaggio, luci diafane e colori intensi e saturi. E le parole che entrano in ogni opera come un filo conduttore che leghi le immagini, non sono mai illustrative. Un'arte concettuale, dunque, che ingloba le emozioni e la materialità della vita, la gioia con la desolazione. «Questa mostra è come una retrospettiva ma limitata agli anni Settanta – spiega ancora Beckley, che da tre decenni frequenta Napoli grazie alla sua costante collaborazione con la galleria Trisorio – Dopo di allora ho fotografato un altro tipo di soggetti e il mio interesse per il linguaggio ha cambiato forma. E qui pensiamo a quegli straordinari e filiformi gambi di fiori, ritratti come fossero ideogrammi di una nuova e sconosciuta scrittura.

Alessandra Pacelli


 
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