Buren, danza di colori tra vuoti e pieni
il mattino / 20 settembre 2008
Daniel Buren, ovvero l’arte dell’ambiguità. Il suo stile è in una sofisticata dialettica di tensioni e di forze in contrasto. Se ne ha una conferma osservando l’installazione site specific da ieri allo Studio Trisorio di Napoli (Riviera di Chiaia, 215: fino al 30 novembre).
Il lavoro segue un andamento estremamente rigoroso. All’origine, vi è sempre un dialogo con il contesto in cui ci si va a muovere. L’architettura non viene mai lasciata com’è: viene reinterpretata, rimodulata, riscritta. Buren ne salvaguarda l’immagine complessiva, per modificarne la superficie. Lo spazio è rispettato: per indossare, però, abiti imprevisti. La galleria è stata occupata secondo una metodologia basata sull’accostamento tra parti identiche: sia dal punto di vista geometrico, sia da quello cromatico. Buren – già autore, nel 2004, della sede dell’Arin a Ponticelli – concepisce la sua ricerca come una disciplina algebrica, c he segue regole fisse e sempre uguali, senza lasciare nulla all’improvvisazione.
L’approccio è di tipo analitico, teso a ricondurre la grammatica della pittura a un processo fondato sul ricorso a unità linguistiche elementari, finite e costanti, prive di ogni rimando naturalistico. Le stesse tonalità non sono manovrate in chiave impressionistica, ma con intenti chiaramente strutturali. L’obiettivo è quello di trasformare l’idea stessa dell’opera d’arte: che non è più un ambito legato alle intuizioni individuali, ma si fa territorio imperturbabile, come un teorema matematico.
All’interno di un ambiente dato, si disegna una sintassi minima, con moduli reiterati a oltranza. A governare il nuovo intervento in situ è la figura del quadrato, che ritorna su ogni parete del soffitto. Innanzitutto, quadrati bianchi. Poi, quadrati giallo segnale, verde traffico, viola erica e blu cielo (nella prima stanza); e blu luce, verde menta, arancio puro e magenta tele (nella seconda stanza). In questo modo, nasce un patchwork nel quale si determina un raffinato gioco tra aperture e chiusure: tra horror vacui e horror pleni. Buren elabora una partitura in cui sembra simulare la danza tra i vuoti (i bianchi) e i pieni (gli altri colori). È come se, su un abito da Arlecchino, aggiungesse tante toppe. O come se, in un guscio impenetrabile, dischiudesse varchi e fenditure. Questa strategia ci fa cogliere il senso profondo di un lavoro, che, talvolta, rischia di risultare piuttosto prevedibile e decorativo. Eppure, l’artista francese – cui il Museo Picasso di Parigi dedicherà un’ampia retrospettiva (in ottobre) – non si limita ad applicare norme. Non si affida solo alla ripetizione di «pezzi» che hanno le stesse proporzioni, le stesse misure, gli stessi rapporti. Salda equilibrio e ritmo: la staticità dell’insieme con il dinamismo di alcune soluzioni. Propone oscillazioni, incrinature.
È, questa, la funzione di alcuni elementi. Le cromie: che, nella loro varietà, suscitano effetti di allargamento e di ripiegamento. Ma non solo. Su ogni parete della galleria, è disposto un quadrato in plexiglass con strisce bianche, che è stato montato in diagonale: un modo per determinare improvvisi cambi di prospettiva. Tra la prima e la seconda sala della galleria, inoltre, è stata collocata una parete artificiale, che sembra venire avanti dal fondo, accentuando il movimento dell’installazione.
È, qui, il senso di un’ambigua avventura poetica. Buren immette, in un’esperienza dal carattere deduttivo, una sorta di delirio progettuale. I suoi gesti sono contaminati da una sensualità inattesa. Ci troviamo dinanzi agli esiti di un illuminismo alterato.
Il metodo è sfiorato dall’esasperazione. La costruzione esatta è lambita da fascinazioni. In alcuni momenti, la geometria segue quasi un impeto dionisiaco. Del resto, come ha scritto Giorgio Manganelli, «aver ragione è la naturale vocazione della follia».