Corneli, forme arcaiche e leggerezza high tech

corriere del mezzogiorno / 20 febbraio 2019


L’artista fiorentino in mostra da Trisorio

Nell’arte di Fabrizio Corneli c’è un intrigante cortocircuito fra un ponderoso arcaismo delle forme e un’immateriale leggerezza tecnologica. Una tensione di forze apparentemente opposte che però regala ai suoi cicli una fluidità percettiva che tiene insieme l’impalpabilità delle linee disegnate dalla luce e allo stesso tempo l’armonia dinamica della morfologia classica che resta fondamento fisico e concettuale del suo linguaggio.
D’altra parte il ciclo esposto nelle due sale della Galleria Trisorio fino al 22 marzo è una testimonianza fedele di questo percorso iniziato nel 1994, e poi più volte ripreso e amplificato, fino all’elaborazione site specific di questo ciclo napoletano che si apre con la sempre seducente forma del «Doriforo» di Policleto, qui restituita grazie allo studio della copia romana del Museo Archeologico di Napoli, ricostruita grazie a un elemento di ottone dipinto di bianco e alla rifrazione di una lampada alogena capace di disegnare sulla parete le ombre corrispondenti alla mano sicura di un disegnatore. Non grafite, quindi, quella dell’artista fiorentino, ma puro riflesso. Come del resto accade in tutte le opere del primo ambiente di Riviera di Chiaia, A partire dalle due Core, un gioco di parole fra il significato inglese (nucleo) e la parola italiana che sta per cuore, presente nei dialetti che vanno dalla Toscana e fino a Napoli. Qui l’involucro di rame argentato è tagliato e inciso, in modo da riprodurre sulla parete, grazie al fascio prodotto delle lampade alogene che l’attraversano, una grande immagine umana che sembra irradiarsi verso l’esterno con raggi e impalpabili ali. Non diversa la tecnica ma sicuramente diverso il risultato di Piazza dei Miracoli, ottenuto grazie a una proiezione della luce che filtra da una scatola verticale sospesa e che realizza di fatto a terra una sorta di caleidoscopio simile al pavimento piastrellato del Duomo di Pisa evocato dal titolo. Come del resto il verticale «Qi–Occhio Audrey Hepburn» del 2018, una sfera di vetro ottico più una semisfera incisa, e un elemento di acciaio inox, che grazie alla ombra portata su parete di un led, ricreano un frammento dell’occhio meraviglioso dell’attrice americana. E ancora, seguendo questa dinamica che esalta il nitore metafisico dell’ambiente espositivo ecco la «Qi–Venere» e lo «Stilo margherita» del 2018, prima di giungere alla seconda sala con l’interattivo e nuovissimo «Halo», ovvero quattro quadrati dipinti con materia blu, in cui si annidano impercettibili sfere, che fanno da elemento di congiunzione con le altre opere, e sulle quali si proietta un punto unico, paragonabile al bersaglio di un mirino, che però cambia ovviamente posizione allo spostarsi dello sguardo dell’osservatore. Un omaggio agli studi prospettici avviati a inizio ‘400 proprio nella sua Firenze da Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti.

Stefano de Stefano


 
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Fabrizio Corneli crea inganni di luce e di ombra

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