Il mondo in una stanza. Gregorio Botta allo Studio Trisorio di Napoli
espoarte — contemporary art magazine / 16 novembre 2021
La personale di Gregorio Botta (Napoli, 1953) organizzata allo Studio Trisorio di Napoli è come un cristallino giardino d’inverno aperto a brecce mentali, a ritmi elegiaci, a racconti in cui lo spettatore è accompagnato dalla lucidità di una mente che via via spinge verso una eburnea e plastica e intima visione della scultura. Botta parte, è lui stesso a dirlo in un testo che affianca la mostra (assieme a un piccolo saggio di Marinella Paderni), «dall’idea di inspirazione (breathe in)», da una dinamica fisiologica che «vuole sondare lo spazio interno, interiore»: e non solo quello legato a un livello biologico, ma anche a una plasticità che si pone come un heideggeriano fare-spazio, da intendersi come libera interpretazione di luoghi.
In questo nuovo itinerario riflessivo – chiamato dall’artista Breathe In (contestualmente Botta ha inaugurato un secondo capitolo del progetto, Breathe Out, alla Galleria Studio G7 di Bologna) – colpisce la morbidezza con cui è accarezzato e plasmato l’ambiente, quasi a seguire una visione diastemica in cui le sfere intervallari tra le singole opere vanno a definire il percorso e a sciogliere eventuali tensioni, a tracciare una costante sunousia, a creare una fluidità dove Innen und Aussen (anche nell’accezione freudiana), chiuso e aperto, esterno e interno, seguono gli attimi della respirazione, del movimento del pensiero vivente, dello stare insieme come esseri singolari plurali.
Ad accoglierci, in questa raffinata e sofisticata scrittura espositiva, è un Senza titolo (2020) che sembra porre l’attenzione sulla illusione pareidolitica, su apparenze illusorie, su elementi morfologici tesi a oscillare sul doppio asse del velare e del rivelare. Accanto a quattro delicatissimi Respiri (2020) in alabastro – materiale scelto dall’artista per la sua duttilità e trasparenza – dove percepiamo degli inserti aurei, ci sono, nella prima sala, quattro meravigliosi Angeli del 2018 (L’Angelo del nascondiglio, L’Angelo apparente, L’angelo dell’attesa e L’Angelo della ritrosia) che rappresentano, la chiusura, l’occlusione, il senso di vivere la propria dentrità. «All’interno degli Angeli», avvisa Botta, «ci sono delle coppe: forma particolare che rappresenta sia un pieno che un vuoto, è un pieno che chiude in sé un vuoto, dunque fortemente evocativa. Rappresenta una modalità dell’essere umano, quella di sentire nostalgia dell’assoluto» e forse anche del futuro. «In questi quattro “tabernacoli laici” fatti di cera – una materia meravigliosa perché sa evocare il corpo, l’imperfezione, le ferite, quindi è ricca di un’infinita gamma sensibile – ci sono degli eventi di luce che noi vediamo ma non cogliamo completamente. Ci affascinano, come succede nell’Angelo del nascondiglio, dove la coppa sembra addirittura lievitare, perdere la sua materialità. Sono piccoli spazi finiti che sembrano racchiudere spazi infiniti».
Nella seconda sala, al centro, campeggia Acqua è insegnata dalla sete (2021), un lavoro – una lastra di cera d’alba con tre fiori (tre ferite) di terracotta – il cui titolo è tratto da un verso di Emily Dickinson, dalla poesia J135 (Water, is taught by thirst. / Land – by the oceans passed. / Transport – by throe – / Peace – by it’s battles told – / Love, by memorial mold – / Birds, by the snow), dove siamo avvolti dall’aperto del chiuso, da un’atmosfera che ci trasporta in un locus amoenus, in un silenzio liturgico – l’artista qui richiama alla memoria l’hortus conclusus, il chiostro monastico, una vigna che si chiama vita e che è situata tra il nulla e il nulla – oltre il quale è presente un silenzio più grande. Noli me tangere I (2019) e Noli me tangere II (2019), sono, in questa sala, due pannelli («li chiamo Noli me tangere perché si ispirano all’affresco di Beato Angelico al convento di San Marco a Firenze, in cui le stimmate di Cristo si trasformano in fiori») delicatissimi, realizzati in carta di riso, cera, foglie e sangue, dove sembra finire l’infinito.
Trasparente e leggero come il ricordo di un canto lontano è, infine, Hölderlin Paradise (2020), sette lastre circolari a parete – quasi una scala, una scalata che indica l’incielare dantesco – su cui troviamo piccoli fiori di terrabianca, frammenti ferrei, memorie dei sogni sognati.
Antonello Tolve