Umberto Manzo: Quel corpo sacro e metafisico da restituire
segno / agosto 2019
Umberto Manzo a chi non lo conosce potrebbe apparire umbratile e solitario, ma in lui coesiste una grande apertura d’animo supportata da una pari ironia, che salta fuori solo se lo si frequenta. Se lo si guarda di profilo si evince la sua indole riflessiva, tanto da far ricordare, fisiognomicamente, gli eroi di borgata d Pier Paolo Pasolini, quelli segnati dalla loro drammatica mediterraneità.
Dietro quel suo volto e quell’espressione sbuca fuori l’ingegno dell’artiere e la laboriosità di un artigiano celeste, che con disinvolta applicazione si misura con la materia cosmica. Nel suo lavorare c’è un’umiltà d’operaio. Spesso dice di lavorare: “sulla classicità, sull’ordine, su quella bellezza orientata all’equilibrio ed al silenzio”.
In diverse occasioni ho pensato che mi piacerebbe ingrandire i particolari del suo volto, molto di più di quello che può fare lui con la pittura. Vorrei riuscire a riconoscere una “mappa segreta” che apra le porte al pensiero anatomico e geografico della sua opera, dove trionfa solo il corpo che estroflette Narciso e rovescia Dioniso.
È tutta una mitologia classica che non è mai solo della storia degli uomini, ma, è memoria, traccia e radice ontologica che corre su un filo sottile, il quale unisce le carte ritagliate, le tavole e le avoriate tele di sua creazione. Così, egli passa a setaccio l’antica Grecia, i fasti di Roma, le rovine di Pompei, il tutto interpretato e personalizzato dal suo sguardo.
Guardando le opere grafiche assemblate in teche di metallo di Manzo, mi viene in mente ciò di cui s’interrogava Vincent Van Gogh, quando diceva: “Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi al passaggio attraverso un muro di ferro invisibilmente che si sente e che si può”.
Ed è così che nel silenzio e nella quiete arriva un eclatante risultato.
Umberto Manzo è un artista autentico che con eleganza attraversa la forma dal sua sua parte retrostante dalle sue quinte nascoste, e non ama illustrare, anzi decodifica costruendo figure che sottrae e snellisce sempre di più agli occhi dell’osservatore, rendendole veri simulacri metafisici.
Umberto Manzo sa misurare come un orafo il peso della materia e delle sue forme.
Negli ultimi tempi Umberto si avvale anche di un nuovo registro artistico, frutto di una naturale evoluzione indagativa: dalla sua opera attuale, per così dire concettuale e materica, che affrontando ceralacche, colori ad acqua su carta e nuove soluzioni pittoriche, fuoriescono una sorta di tableau dell’incorporeo.
Alcune di queste opere erano visibili nell’attuale edizione nella “Fiera d’Arte Contemporanea Arco 2021” a Madrid presentata dalla Galleria Trisorio, molto altro attualmente si può osservare nell’attuale collettiva internazionale dal titolo “La via della seta” a cura di Angela Tecce, che sarà inaugurata a Kiev come prima tappa per poi proseguire al “China World Art Museum” di Pechino nel 2022.
Nell’attuale come nella precedente opera di Umberto Manzo emerge sempre il corpo che si disvela ed esce fuori in tutta la sua sostanza; c’è la forma che respinge la forma, una forma che si pone al confine tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto. Jim Rohn davanti ad un bicchiere di vino diceva: “abbi buona cura del tuo corpo, è l’unico in cui devi vivere”. Di sicuro di questo Umberto ne è ben consapevole, tanto da evidenziare il campo magnetico e metafisico della sostanza di esso; quei frammenti del corpo, che sono il dorso, il volto e le mani, risultano pezzi di un involucro, di un corpo incorporeo abitato solo dal mito.
Così è successo nel lontano Rinascimento a Raffaello Sanzio, l’impareggiabile Urbinate, il cui disegno si cristallizzava nel mito per raggiungere il sacro.
Così è successo, anche allo scultore polacco Igor Mitoraj, che ha rincorso quel vuoto affinché diventasse pieno per portare per sempre più allo scoperto “il dettaglio divino”, quell'”apollineo” di nietzschiana memoria
Nel tempo Manzo si è impegnato a mettere a fuoco il sacro attraverso le sue particolari icone fatte di disegni con le carte, con stoffe dipinte e materiali organici.
Il suo è un corpo che, anche se metafisico, cerca di materializzarsi nella luce.
Mi viene in mente un’opera del 1996 di Manzo, un’enorme mano composta con diverse tecniche che ne fanno fuoriuscire tutti i particolari. Al centro di questa mano è ben evidente il nero della grafite; quel che basta a evidenziare come una rivelazione de “la stimmata”. Si tratta della mano di un santo, quella di un giovane San Francesco d’Assisi o di San Pio da Pietralcina; segno e corpo che confluiscono insieme in un frammento mistico che interroga profondamente i demistificatori e che apre le porte all’invisibile e si contrappone alla volgarità di un mercimonioso iperrealismo che è tanto di moda.
Manzo nel silenzio della sua ricerca cerca sempre di più di illuminare “tracce del corpo” che diventano universali e si avvicinano sempre più a Dio; al corpo incorrotto che sfugge alle piaghe dell’inferno ed è pronto, nella sua luminosità, ad essere restituito a chi per noi lo ha pagato a caro prezzo.
P.D. Umberto ho avuto modo di guardare le tue opere che hanno fatto parte dell’attuale “Fiera di Arco” che si è svolta a Madrid, in questo mese, con la Galleria Trisorio. Ritengo che sono opere intense e credo che hanno a che fare con la natura, per meglio dire, con la fenomenologia di essa. In tali opere ritrovo, anche, una conservazione di tutte le tracce; tracce di vite vissute e poi archiviate. Ti ritrovi in questa mia lettura?
U.M. Ogni mia opera è la somma di tante cose. Mi piace immaginare i miei “archivi” che custodiscono emozioni, umori, sensazioni e tanto altro ancora, come archivi dove non esiste successione cronologica. Il tutto, visibile per piccole tracce e frammenti, si presenta nello stesso spazio e nello stesso tempo.
P.D. Della tua opera “Senza titolo” del 2002 invece, cosa mi dici? In cui c’è un uomo che riposa dialogando con un braccio ed una gamba in uno spazio sospeso che assorbe lo sguardo. Da ciò che ho compreso quest’opera ha fatto parte, ultimamente, della mostra “Utopia distopia” a cura di Kathryn Weir esposta al Museo Madre di Napoli. È così?
U.M. Sì, la nuova direttrice del Museo Madre, Kathryn Weir, che ha curato la mostra “Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud” ha voluto inserire quest’opera nella sezione: Spazio del Corpo. L’opera del 2002, fu presentata ad una mia personale, tenutasi a Castel Dell’Ovo, Napoli, nel 2003. È un’opera di grande dimensione, dove i particolari anatomici, ottenuti con emulsione fotografica, lasciano quasi intravedere la superficie sottostante e si confondono con essa; i pezzi di tela incollati e sovrapposti, creano, insieme a dei segni tracciati a matita, delle geometrie creando spazi illusori abitati da corpi.
P.D. Perché l’assemblaggio di forme, di tracce e memorie affiorano nella tua opera?
U.M. Perché per me l’opera ideale è quella che contiene in se un’infinità di cose e quest’infinità di cose, racchiuse in un’unica opera, sono visibili per frammenti, per particolari e tracce; è un modo per raccontare il tutto.
P.D. Nella tua pittura si affastellano spazi che diventano profondi racconti interiori. Perché?
U.M. Ogni opera ha una sua vita interiore ed io cerco, con il mio modo di costruire l’opera, di scoprire e rendere visibile ciò che si cela sotto la sua superficie.
P.D. Da dove nascono questi tuoi tagli compositivi? Ed innanzitutto come e perché sono una componente significativa del tuo lavoro?
U.M. Certe mie opere sono come delle grandi architetture dove è possibile far convivere elementi diversi ma che riescono a dialogare tra loro.
P.D. La tua figura umana, nel tempo, è diventata concettualmente abitata. Ritrovo nelle tue tecniche miste una sorta di architettura dove abitano corpo ed anima. La figura abitata è stata sempre un riferimento importante del tuo operare fin dagli inizi?
U.M. Non ho mai sentito la superficie del quadro come luogo di rappresentazione illusoria, ma ho sempre sentito l’opera come presenza fisica. Spesso i particolari di corpi ingigantiti diventano l’opera stessa e l’opera diventa corpo e anima.
P.D. In quale direzione è orientata la tua attuale opera?
U.M. La mia opera è sempre orientata nella stessa direzione; vuole essere il tentativo di tenere insieme e di riassumere in un’unica grande opera tutto il lavoro fatto in quarant’anni di ricerca.
P.D. In questi ultimi anni ti senti ancora vicino alla lezione dell’artista Carlo Alfano? E se è così quanto ha inciso quest’artista nella tua opera?
U.M. Credo che tu faccia riferimento all’opera figurativa di Carlo Alfano, quella degli anni ‘80. Alfano è senza dubbio uno dei più grandi artisti che questa città ha avuto. Credo che ci sia un filo che parta dalla Napoli Greco Romana, attraversi il seicento con Caravaggio, Ribera, Luca Giordano ecc. fino ad arrivare all’ottocento con Gemito, e poi ai giorni nostri con Alfano e Perez e tiene legata l’arte della nostra città ed io mi sento legato a questo filo.
Prisco De Vivo