A Napoli l’opera-denuncia sul tema dello stupro. Parla l’artista Elisabetta Di Maggio
artribune / 17 dicembre 2023
Il tempo, la precarietà, la condizione femminile in una serie di opere che parlano anche agli uomini. Una doppia mostra a Napoli allo Studio Trisorio
Il lavoro di Elisabetta Di Maggio (Milano, 1964) nasce da una profonda riflessione sulla corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, in una continua ricerca della struttura essenziale delle cose e di quelle reti invisibili in cui ci muoviamo. Così l’artista, che vive e lavora a Venezia, mette in evidenza il collegamento fra l’uomo e l’universo. Le sue opere sono in mostra allo Studio Trisorio a Napoli, sotto il titolo In-attesa.
In occasione della tua ultima personale, voglio chiederti della tua prima mostra, quando e come, e da allora che cosa è cambiato?
La prima mostra risale ai primi anni ’90 del secolo scorso… una vita fa. Era la collettiva dei giovani artisti che ogni anno organizza la Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, se ci penso è sempre con tenerezza. È cambiato molto nell’arte, in quel tempo c’era forse maggiore inconsapevolezza, si pensava che l’arte fosse una “missione”. Oggi si richiede alle nuove generazioni di essere più pragmatiche e preparate alla “professione” di artista. Ma io appartengo al secolo scorso…
Intagli con un bisturi chirurgico diversi tipi di materiali, piccole o grandi foglie, sapone, porcellana, fogli di carta velina, ma anche superfici come vecchi muri intonacati, portando alla luce gli strati di colore preesistenti, le tracce di una vita passata. Fai affiorare la geografia che accomuna le linee del palmo di una mano e la struttura di una foglia, le mappe urbane e i circuiti venosi. C’è fantascienza e c’è poesia. Che cosa leggi?
Tantissima poesia e letteratura classica e contemporanea, filosofia, scienza, botanica… ma mi sento sempre molto ignorante.
E nell’arte chi sono i tuoi maestri?
Sicuramente l’Arte Povera, le artiste del passato che sono pioniere e maestre, e l’arte del tardo medioevo e rinascimento, anche quella nordica.
Il titolo della mostra, In-attesa, allude in diversi modi al tempo, al sentirsi in uno stato di sospensione. Che cosa accade in galleria?
In-attesa è un’espressione che racchiude due significati distinti ma complementari: il tempo trascorso nell’aspettare; quindi, l’attendere che si realizzi qualcosa che ancora non è; qualcosa che arriva nostro malgrado, l’inaspettato, qualcosa di improvviso.
In-attesa è anche come mi sento, come sono; sono partita da lì e a mano a mano hanno preso forma opere che, come frammenti, sono andate a comporre la mostra.
Ce ne descrivi qualcuna?
C’è l’opera Annunciazione, formata da due grandi ali di libellula intagliate in rame che fanno pensare alle ali degli angeli nelle annunciazioni della tradizione pittorica rinascimentale ma ricordano anche le vetrate delle cattedrali; c’è poi Traiettoria di volo di farfalla, realizzata con spilli da entomologo, una metafora dei nostri percorsi di vita che ci costringono a fare molte evoluzioni prima di raggiungere la meta individuata, muovendoci proprio come le farfalle; il mosaico Pie in the Sky, realizzato con frammenti di vetro che brilla come un acquarello di luce in galleria; ci sono poi delicati mosaici di cera della serie Cosmographiae che si ispirano ai planisferi della geografia antica.
Tutte opere che richiedono una grande pazienza e concentrazione….
C’è il tempo, la precarietà dei materiali che ogni volta stresso fino a portarli all’estremo, c’è la vertigine di raggiungere i nostri limiti che sono ciò che ci forma, c’è lo sguardo sulla Natura che insegna sempre, e c’è la semplice quotidianità. È una mostra che presenta produzioni nuove e lavori già esposti ma (purtroppo) di estrema attualità.
Nello spazio della galleria in via Carlo Poerio 116 è installata l’opera Rape (stupro), nata da una riflessione sulle violenze contro le donne e composta da seicento saponi di Marsiglia Sole intagliati a mano con ossessiva precisione. Le parole intagliate nei saponi descrivono i liquidi del corpo prodotti durante gli stupri: saliva, sangue, sudore, sperma, urina e lacrime, macchie che non possono essere lavate. L’opera di una donna rivolta alle donne?
Non mi sono mai posta questo problema, ho sempre pensato che un’opera parlasse un linguaggio neutro, al di là di chi l’avesse creata, se uomo o donna, importante per me era che comunicasse qualcosa in cui potermi riconoscere e far pensare, aprire visioni… questo non significa che il problema non esista, anzi. Secondo la Top 100 dell’arte contemporanea, stilata ogni anno dalla rivista Art Review al primo posto troviamo Nan Goldin, e a seguire sono molte artiste o curatrici e collezioniste… ma il fatto che siano donne fa ancora scalpore.
Quando non avremo più bisogno di sottolinearlo avremo fatto passi avanti.
Perché visitare la tua personale?
È una mostra sussurrata e sussurrare crea stupore, pretende attenzione e riflessione, un tempo più lento. Penso che abbiamo bisogno di stupirci, soprattutto ora che attraversiamo un momento così difficile.
Cosa desideri per il futuro del tuo lavoro?
Continuare ad avere la salute fisica e soprattutto mentale per continuare a farlo.
Alessandra Galletta