Louise Bourgeois

arte / aprile 2017


Nelle opere audaci e potenti della gran dama dell’arte si concentrano simboli e forme dell’inconscio. Per riparare le ferite del passato

Nata nel 1911 a Parigi e scomparsa nel 2010 a New York, Louise Bourgeois è stata, per il critico d’arte americano Robert Storr, «l’artista più preparata e curiosa della sua generazione, guidata da una mescolanza unica di sapienza, intuizione, pulsioni psicologiche e completa intelligenza». “Gran dama” dell’arte contemporanea, con la sua sensibilità ha attraversato quasi un intero secolo elaborandone le inquietudini, i desideri, i traumi e i riscatti in opere audaci e potenti, diventate tra le più iconiche degli ultimi anni. Sebben il successo per lei sia arrivato tardi, all’alba dei 70 anni, – con una personale al Moma di New York nel 1982 – il suo lavoro ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario collettivo di diverse generazioni, soprattutto per le più giovani, che continuano a guardare lei come riferimento non solo per le innovative soluzioni formali, ma anche per la ricerca e la comprensione di se stessi attraverso il proprio lavoro, che insisteva la Bourgeois, va sempre al di là di un ritorno mediatico o di mercato. «Ero molto produttiva, perché nessuno cercava di copiare il mio alfabeto. La mia immagine è rimasta tutta mia e di questo sono molto riconoscente. Ho lavorato in pace per quarant’anni».

IL MONDO INTERIORE. Lo Studio Trisorio di Napoli, in collaborazione con la Fondazione Bourgeois (www.theeastonfoundation.org), presenta fino al 17 giugno quattro sculture in bronzo e una selezione di 34 disegni dell’artista francese. Opere, queste ultime, che hanno un’immediatezza emotiva, perché «sono espressione del suo mondo interiore», racconta Jerry Gorovoy, storico assistente e manager della Bourgeois. «Per Louise disegnare era come tenere un diario. Alcuni suoi disegni hanno una grande intensità e rapidità di espressione, riflettono le turbolenze del momento come in un traboccante flusso di coscienza. Altri sono più organizzati e ponderati, con momenti di calma, chiarezza e precauzione». Tutta l’arte della Bourgeois, dalle opere su carta alle emblematiche sculture realizzate nei materiali più disparati – dall’acciaio al bronzo, al legno, all’argilla, alla stoffa o al marmo –, ruota attorno all’analisi della propria emotività, del proprio inconscio e del proprio passato, perché l’arte, sosteneva l’artista, «è l’esperienza o la riesperienza del trauma». Un trauma che per lei ha origini lontane, negli anni dell’infanzia, quando il padre porta a vivere nella casa famigliare di Choisy-le-Roy l’amante Sadie come insegnante d’inglese dei tre figli, sotto il tacito consenso della madre che finge di non sapere, ubbidendo alle ipocrite convenzioni sociali. «La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, il suo mistero e il suo dramma», ha spesso dichiarato la Bourgeois. I temi della violenza, del tradimento, della sessualità e della maternità sono infatti più e più volte sviscerati nella sua opera come una sorta di lunga psicanalisi: «Per riuscire a liberarmi del passato io devo ricostruirlo, devo rifletterci. Bisogna essere accurati nei ricordi. L’obiettivo è rintracciare la fonte della propria ansia. In questo mi serve la scultura».­­

UN SENSO DI RIPARAZIONE. La Bourgeois inizia a “ricostruire se stessa” attraverso la scultura nella seconda metà degli anni Quaranta, dopo essersi trasferita a New York con marito americano Robert Goldwater, uno storico dell’arte conosciuto a Parigi. La prima serie di opere sono figure stilizzate in legno o materiali recuperati che lei intitola Personnages e che incarnano i rapporti lasciati in Francia. Il corpo, indagato nella sua più brutale fisicità, nelle sue metamorfosi e nei suoi limiti, sempre più frammentato e fatto a pezzi, diventa con gli anni il soggetto privilegiato per rappresentare emozioni o dinamiche affettive come la paura, l’ansia, il desiderio, la gelosia o la vergogna. «Sono una donna molto concreta. Per me le forme sono tutto». La scultura è il mezzo prescelto proprio per il suo forte collegamento col corpo, mentre il disegno è uno strumento perfetto per «fissare un’idea che non voglio perdere», o per «scivolare nell’inconscio». Negli anni successivi queste figure antropomorfe vengono allestite in ambienti più ampi e articolati: le Cells, esposte nel 1993 nel padiglione americano alla Biennale di Venezia. Sono strutture opprimenti e claustrofobiche delimitate per lo più da reti metalliche e occupate da oggetti quotidiani o inquietanti come ghigliottine e strumenti di tortura. Rivisitazioni di quel focolare domestico nel quale si condensano troppo spesso sofferenze, frustrazioni, solitudini e ipocrisie. Ma da questo misterioso groviglio di relazioni che è la famiglia emerge sempre, nell’opera dell’artista, una figura forte e positiva: quella della madre, «colei che dà, colei che provvede, qualunque cosa accada». È a lei che la Bourgeois dedica le opere forse più sorprendenti di tutta la sua carriera: quei giganteschi ragni in acciaio che l’hanno resa celebre in tutto il mondo. «Il ragno è un’ode a mia madre», spiegava. «Vengo da una famiglia in cui si restauravano arazzi, vedevo mia madre ricucire al sole per ore. Questo senso di riparazione è profondamente radicato dentro di me. Il ragno ripara la sua tela. Se tu distruggi la sua opera, il ragno si mette all’opera e la ricostruisce. Mia madre era intelligente, paziente, opportuna, utile e ragionevole. Era indispensabile come un ragno». Indispensabile come l’arte, che ha aiutato Louise Bourgeois a ricucire le ferite e le separazioni di una vita intera.

Manuela Brevi


 
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